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Mia Nonna dello Zen ♦ Ermeneutica della migrazione subdola a nord di Sibari

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Mia Nonna dello Zen a Paul Ricoeur
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Perché mio nipote V.S.Gaudio non è a casa propria 
e che cazzo c’entra la migrazione gliarone 
con la guerra di Troia?
Il senso positivo dell’ospitalità, frutto della combinazione del significato greco, ebraico e cristiano si afferma solo a partire dal XVI secolo. Il Robertla definisce così “ Il fatto di ricevere l’ospite presso di sé, dandogli eventualmente alloggio e nutrendolo gratuitamente”. Si incorre quindi nel termine ospite e non più ospedale. La storia condensata della parola ci mostra una progressiva riduzione dello spirito di superiorità del donatore, dell’accondiscendenza generosa, che contaminano l’atto di ricevere presso di sé, di condividere l’essere a casa propria.
[►da: Paul Ricoeur, Straniero, io stesso, in: Idem, Ermeneutica delle migrazioni, Mimesis 2013]
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Il punto finale di questa evoluzione, aggiunge Paul Ricoeur, è l’idea che al dovere di ospitalità corrisponda un diritto di ospitalità. Fu così che mio nipote, pur essendo a casa propria, fu trasformato in ospite, e allora a un certo punto, ricordandosi la pagina già citata da Per la pace perpetuadi Kant, in cui “ospitalità significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo”, non sulla terra di un altro, metti lo gliarone che sta al suo paese, Albidona, ma sulla propria terra, che lo gliarone ha occupato abusivamente, insomma volle avere pure lui il diritto che ogni uomo ha di proporsi come membro della società e questo vuol dire – così scrisse Paul Ricoeur- che ogni ospite è un candidato virtuale alla cittadinanza.
Per quanto mio nipote, ormai lo sappiamo, avesse un cognome che non era il suo cognome di appartenenza. Ma, che dire? Si sa come sono i poeti, “qui risiede la forza dell’idea di diritto all’ospitalità”, e allora chiese il suo diritto effettivo, ma l’ospite, che gli aveva preso la terra e la chiave, e tenne in prigione a numero civico alterno l’avo facente funzione, violando l’ospitalità e l’articolo 22 della costituzione, dette inizio alla più violenta e subdola migrazione a nord di Sibari, al cui confronto la guerra di Troia, iniziata quando Paride violò l’ospitalità con il ratto di Elena, sembra uno sceneggiato per i pensionati analfabeti della tv di stato e di quella commerciale.
[→da: Mia Nonna dello Zen, Se l’articolo 22 della Costituzione è stato violato,ha inizio la più violenta e subdola migrazione a nord di Sibari ?]



░ Nélida Gaudio de Zenarruza scrive a ► V.S.Gaudio

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La lettera di Nélida Gaudio de Zenarruza
al giornalista Gaudio V.S.
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San Francisco, Prov. de Córdoba. Rep. Argentina
25 de Abril de 2000.
Señor Gaudio Giornalista V.S.
De mi mayor respecto: mi nombre es Nélida Gaudio, vivo en la ciúdad de San Francisco(Córdoba), Re.Argentina y tengo 78 años.
Vay a viajar el dìa 21 de Mayo a la region de Calabria para conocer la tierra de mi querido padre, que vino a la Argentina abrededor de la primera década del Siglo 20.
Su nombre era Fidel Vicente Gaudio, su madre Maria Marinelli, no tenéa hermanos, pero lo criaron los abuelos.
De acuerdo a los datos que poseo serìa originario de Cosenza, comuna de Trebisacce.
En este viaje que haré serìa muy feliz contactando a sus familiares, para conocer mis raices; por ello solécito saber de usted, antes de partir yo hacia esa hermosa nacion.
Agredecida lo saludo con mi mayor respeto.
Nélida Gaudio de Zenarruza

Mi domicilio:
……………
……………

Carta de V.S.Gaudio ░ a Nélida Gaudio de Zenarruza

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Señora Gaudio,
yo soy, a ciencia cierta, Gaudio V.S.
O sea: mi nombre es V.S.Gaudio, vivo en la ciudad de Trestalegas, por decirlo así.
La región de la Calabria es , tal vez, la tierra de mi querido padre y también de mi querido  abuelo, que, es evidente,  esto es sido aludito, parece que haya estado en Argentina, donde en Ushuaia, parece, ha conocido Aurelia Steiner de Ushuaia y comendo langostas de la manera de Sibari se ha enamorado  de ella, y se ha llevado ella aquí, donde ha dado a ella el jardín del zen de la naranja.
El nombre de su querido padre es como el mío, Vicente, y como el nombre del poeta Vicente Aleixandre; pero mi madre, sólo Dios lo sabe. Yo no sé quien es ella; que yo sepa, yo se a poco. Yo no penso que la madre aquí destinadame sea  mi madre titular.
Pero, se usted venís de América,  después andemos a Sant’Arcangelo y buscamos junto alguno otro  pariente que nos  auna hasta en el país de Scardaccione, aquél de la reforma agraria, y de Giordano, aquél de la diócesis de Nápoles, donde jugó Armando Maradona, y donde es el Prior,  de Nápoles del Orden de Malta, capiteneado hasta poco tiempo por uno de la familia del príncipe negro de Cerchiara.
Es evidente, querida Señora Gaudio, que la hermosa nación, bien mirado, no es tanto hermosa(¡Faltaría más el país!).
De todas maneras, yo a Usted espero. ¡Vamos a ver!


Trestalegas, 9 Mayo 2000 

P.S. ¡ Por amor de Dios, yo amo Cybersix de Carlos Trillo y Meglia: tráigame una historieta original o Carolina Peleritti(Pelleriti) con la dedicatoria!Y sería realmente el Gozo máximo si Carolina(como Cybersix) fuese pariente de Usted también politico, así que Carolina(= Cybersix) sea también mi pariente politico: ¡con un dispositivo de alianza así embragado el Gozo sería absoluto!

Orsellizia™ e il mistero del gioco dei bigliettini

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Orsellizia che beve alla tedesca e il mistero del gioco dei bigliettini
by Gaudio Malaguzzi

Un giorno avvenne che Orsellizia rinvenne in un baule la fotografia in cui, ragazzina, è immobilizzata nell’atto di bere all’abbeveratoio degli asini e dei muli, e anche delle pecore e delle capre, e intanto che fu di nuovo colmato di gaudio il suo oggetto a nel rivedersi coi calzoncini neri e il cinturino bianco, vi trovò anche un biglietto in cui c’era il gioco dei bigliettini a domanda e risposta, quel vecchio gioco[i]che, e questo lo ricordava ancora, aveva fatto con il poeta, e al poeta inviò perciò una busta, con quella fotografia dell’abbeveratoio e quel biglietto del gioco dei bigliettini, e non ne attese risposta perché andava, ormai ultratrentenne, a maritarsi.
Il poeta, quando ebbe in mano la lettera e quando vide la fotografia in cui Orsellizia sta bevendo alla tedesca, rimase infinitamente teso tra la letizia e la lentezza della Battaglia dei Gesuiti finché spiegò il foglietto per leggere quello che vi era stato scritto:
“Chi è?” La mulacchiona col cinturino bianco.
“Dove si trova?” All’abbeveratoio degli asini e dei muli.
“Che fa?” Beve alla tedesca.
“Che cosa ha detto?” Perché mi guardate così mentre bevo coi calzoncini neri e il cinturino bianco?
“E il poeta che cosa ha detto?”Oh, Cristo, la flessione del genere 42 corto nel sistema della moda di Roland Barthes!
“Com’è andata a finire?” L’ha fatta alla tedesca, calandosi il genere 42 corto dietro l’abbeveratoio.
Non riesce ancora a definire chi ha risposto a determinate domande, se le risposte sono alternate, o se ha risposto a tutte le domande Orsellizia o il poeta, ma così facendo il gioco sarebbe stato un solitario, e allora chi lo ha fatto? Avendolo rinvenuto lei nel baule, glielo aveva dato il poeta, oppure l’aveva fatto lei e adesso a gioco fantasmatico, al momento in pausa, glielo aveva svelato?




[i]Se ne rinviene menzione anche in: Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Einaudi, Torino 1973.

Pamela August Russell ░ B is for Bad Poetry

Camminando, rasato di fresco▐ Ettore Bonessio di Terzet

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Camminando, rasato di frescoEttore Bonessio di Terzet




dialogo


se ne andarono insieme
dormendo morendo
sfiniti

( si riposi
potevo fare di più
ha fatto il suo meglio
ho paura
non c’è ragione
mi prenda la mano )



*

                                                                      

camminando, rasato di fresco


si può contrattare con l’eterno
o solo parlargli senza risposta
sapendolo prima e continuando.
Ringraziamo per il buon vivere
per i giorni quando non avevamo
neppure il desiderio di morire, e
vivevamo come il bel ragnetto
della Namibia arrotolandoci
per sfuggire alla puntura fatale
e morire di caldo sulle dune.
Possiamo contrattare con l’Eterno
sapendoci partecipi della sua natura
precipitati per una questione chimica
in una vita che si risolve come sappiamo.
Eppure sappiamo anche che ragnetti
bianchi non siamo, qualcosa di altro
di cui rimane secreto e assolato il perché.
Rimettendoci ogni attimo alla parola data
ogni secondo non credendo più che
 si mantenga la parola. Sapere e credere
s’intersecano se non addirittura sinonimi,
ma ditelo a chi ha perso l’amante, a chi più
non ha ricordo e memoria, a chi impegna
il suo cuore e la sua mente per
non essere più straniero in questa terra
dataci toltaci ripresa ritolta - così sembra -
da umano che più non è ed ha pervertito
la funzione in essenza.
Possiamo stare così in questo mondo
o in altra galassia senza l’unicità degli esempi,
senza una parola intagliata tra parole,
una piccola frase amica, una pacca
sulla spalla che riaccende il motore
per tutte le miglia dovute beffando
ogni potere del cruise control.

*


  da: tempo e vita (1)



Aida Maria Zoppetti ♦ La rasatura di Cy Twombly

♦ Il più grande batterista senza batteria™

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 Il poeta  che è il più grande batterista senza batteria
byGaudio Malaguzzi

Il 98% dei giovani che compiono studi superiori di musica entrano nei nostri conservatori con altissime aspettative, e dopo aver portato a termine i loro studi trascorrono decenni e decenni di una vita penosissima facendosi chiamare professori di musica, questo scrive Thomas Bernhard[i]. Questa esistenza mi è stata risparmiata, pensò il poeta, ma mi è stata risparmiata anche un’altra esistenza, quella che porta i nostri noti e celebri poeti da una grande città all’altra, e poi da una stazione balneare all’altra, e infine da un paese di provincia all’altro, a patto che abbiano delle scuole medie, anche inferiori, non appena arrivano in qualche paesino, vedono una locandina, un piccolo manifesto, attaccato al palo di un lampione, come fanno per il Circo Orfei o Bellucci, in piena campagna, dove c’è il lampione per quelli che non hanno mai pagato l’addizionale locale e per quelli che ancora continuano a pagarla sotto l’acronimo della tassa  che include la spazzatura e un lampione non l’hanno mai visto fosse pure a 100 metri da dove sono tenuti in segregazione, un manifestino su cui è scritto il nome di un nostro vecchio compagno di scuola, il più coglione e il meno intelligente e anche quello che l’italiano ha sempre pensato che fosse quel commesso viaggiatore arrivato, a suo dire, da Milano in quei favolosi anni Settanta, e sto coglione, foss’anche nella scuola elementare del paese, perché non ci sono più cantine , e nemmeno il casino dove venivano le puttane da Taranto adesso però c’è la scuola del fare, legge tutte le sue ultime  duecentocinquanta poesie, un atto che, per poter mangiare dopo una pizza fatta da pizzaioli improvvisati con una birra scaduta l’anno scorso, mi fa venire il voltastomaco solo a pensarci.
Un simile indegno destino a me è stato risparmiato, non perché avrei voluto suonare il piano, ma semplicemente perché i pianisti almeno non pretendendo di farsi chiamare poeti e di andare paese per paese a rompere l’incanto della mappa cognitiva e dell’identità di percezione dei fanciulli, che vorrebbero farsi in santa pace le loro benedette quotidiane battaglie dei Gesuiti, senza che venga un coglione ad assordargli la libido con queste menate che fanno rivoltare nella tomba Petrarca, Leopardi, Ludovico Ariosto e persino Giuseppe Giusti, Gioacchino Belli e Duonnu Pantu.
Nessuno oggi sa che il poeta un tempo ha suonato la batteria, questo posso proprio dirlo, anche senza averne mai avuta una, né che sia stato, per poterlo fare, a scuola, e che, in effetti, è stato uno dei migliori suonatori di batteria senza batteria, un giovane che, quando guardava suonare la batteria Ringo Starr, pensava: “ E’ dunque questo il modo di suonare la batteria, che cosa ha di sofferto e dov’è la depressione esistenziale?”
Il mondo è pieno di imbecilli musicali che finiti gli studi accademici hanno per così dire intrapreso l’attività concertistica[ii], come quell’amica del poeta che suonava il violoncello e poi ha fatto venire voglia a Roy Stuart di immortalarla in una sequenza di immagini[iii] in cui lei suona lo strumento che tiene tra le gambe aperte. Io suonavo la batteria molto meglio di quasi tutti gli altri che andavano a scuola e il fatto di non averlo mai potuto fare per davvero, intendo con lo strumento vero e proprio, questo mi ha permesso di fare il poeta, perché suonare davanti a un pubblico è una cosa tremenda, suonare il violoncello come quella mia amica – questo ha riferito una volta lei stessa – davanti a un pubblico è una cosa tremenda, per non parlare di come sia penoso e tremendo vedere cantare, davanti a un pubblico, una figa sofferta e capace di far rilassare il nostro oggetto “a” non appena lei prende l’asta del microfono in mano e se lo porta alla bocca: Ma – è questo che pensa il poeta – il fatto di non aver suonato la batteria davanti a un pubblico, che, poi, sarebbe stato quello di un paesino, o di un ristorante, di una masseria, per gli invitati al matrimonio o alla cresima di turno, se non, per denaro, suonare addirittura a un battesimo; insomma, il fatto che questi lo fanno, intendo, questo pensava il poeta, i cantanti famosi e i musicisti dei loro complessi e, poi, gli altri, quelli che fanno concerti, chi col violino, chi col pianoforte, chi, come la mia amica, col violoncello tra le gambe, non si vergognano, e nemmeno si vergognano quei poeti che vanno in giro per questo paese così afflitto e depredato da immondi e perversi espropriatori della cosa pubblica e della vita dei cittadini, i poeti e questi infami amministratori che, in vita loro, l’unico verso che hanno mai inteso è quello dei porci, e, insomma, è formidabile, allora, che non mi sono messo a suonare la batteria per un pubblico ed è ancora più formidabile che, così non facendo questo, abbia potuto fare il poeta e i poeti che vanno in giro a declamare  i loro versi mi fanno venire i brividi, perché è quanto di più atroce si possa immaginare, suonare la batteria in piazza davanti a un pubblico di bottegai e ladri pubblici e privati e leggere versi per gente che non ha mai letto nemmeno “Tiramolla” e quando vede una penna ha una crisi asmatica che, è per questo fatto, che nel mondo si pensi che la gente , anche in situazioni di completa depenalizzazione della libido, continui ad avere orgasmi.



[i] Cfr. Thomas Bernhard, Il soccombente, © 1983 , trad. it. Gli Adelphi, sesta edizione: pag.122.
[ii]Ibidem: pag.124.
Roy Stuart © The Cellist

[iii]Guardale in: Roy Stuart, Volume II, Taschen:The Cellist.



Vuesse Gaudio ░ Un rosso miao...per "Donna Moderna"

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Un Rosso Miao 
il test di Vuesse Gaudio per “Donna Moderna” n.12
Arnoldo Mondadori Editore, Milano 7 giugno 1988 

Ide Dafìnashìtës ◊

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tLa modella di Nicholas Dahmane non è Ide DafìnashitësÔt
Dafìnascìtës, quando apparve, era sì su un balcone, e pure il podice
ha l’immobilità dura e patagonica della pietra per lo shummulo
ma…non è quello di Ide Dafìnascìtës !
La terra trasfonde vibrazioni continue
dentro il cuore, e questo sei tu per come
sei avvenuta, in quella giustezza e misura
Dio, è questa la suonatrice del violino,
ed è da allora che avendolo scoperto
che sei impareggiabile per come sai
suonare il violino, ti costringo sempre
a suonarmelo il Berg, di là venendo da est
un po’ dal mare e tra gli alberi, che cosa vedi
un campo di trifoglio maturo ? O un prato
da attraversare dopo che l’hai fatta nel sottopasso?
Tra te e il canale, e il deposito che man mano
lasci giorno dopo giorno lustro come se
avesse la luce del sole ed è sul muschio intriso
di zenzero e miele dello shummulo, c’è vento
nel granoturco verso ovest  oltre la ferrovia
e il poeta sente il fruscio delle tue sottane
quando ti abbassi a farne colare immonda
e immensa contro la siccità e la stitichezza,
come può il poeta coltivare i suoi cento acri
se è perso nel suo Berg e nello shummulo
che con un misto di corni, fagotti e Ellie Goulding
ostinatamente fa sul tuo tergo così come
intende la carne Merleau-Ponty e lo stesso
mulino ad acqua, si chiede sempre come
ti asciughi, ti porti le pietre dal mare o ne
tieni una che piena come le tue natiche
piegandoti la deponi un po’ più in là
dove il tuo senso naturale della postura
ha designato il punto giusto per deporla?
In vita mia, questo si dice il poeta, non ho
mai visto un podice così come il tuo dopo
aver presupposto – non avendolo ancora
visto – che fosse proprio così, fosse la terra
che è, sarebbe della misura agraria della
bisaccia, bisthes , o visto che è un podice
femmina, bismori, perché nello shqip, è
questa la tua lingua in cui anche il culo
è femmina e lo chiami prapanicë, il poeta
quando pensa al tuo culo pensa al tuo
essere-femmina, che è l’archetipo sostantivo
prapanicë, che è un archetipo sostantivo
femminile, e dunque lo chiamerò anche
bismori, perché “mori” è femminile come il
tuo culo, e se vai a vedere anche lo shummulon
se non fosse uno schema verbale è femmina,
la pietra del mulino con cui moli il (-φ)
quando la fai girare non la tira il tuo essere-“mulo”,
che, nella lingua del tuo culo, fa appunto  “mushkë”
ed è femminile come “prapanicë” e come “bismori”,
che, visto che sai suonarlo il mio Berg,
e io so suonare il tuo, arriveremo insieme
ad ararne, con lo shummulo giorno dopo
giorno, almeno cento di bismori fino a
che il passaggio nel sottopasso sarà ostruito
dal deposito di zenzero e miele e il poeta
non sentirà più il fruscio delle tue sottane
quando dopo aver fatto lo shummulo
ti poni a deporne la traccia con prapanicë[i]
messa ad est, che è all’alba, quando ascende per mostrarsi,
che il suo fantasma si fa irreprimibile e imperituro
Wordle: l'apparizione di ide dafinashites 2[►Se fosse l’antologia dell’ Ide-Dukem        (…l’apparire di Ide)◄]
Wordle: l'apparizione di ide dafinashitesby v.s.gaudio 




[i]“Prapanicë”è commutabile anche con “tëndènjura”, che è proprio il “sedere”, il “fondoschiena”, e in più, oltre che essere sempre femminile, è anche plurale; questo raddoppiamento del culo di Ide, che è la macina dello Shummulon, poggia sulla qualità, sull’aggettivo, di “fermo”, “immobile”, addirittura “raffermo”, di “i ndènjur”.
Ô“Sh”  si legge come “sc” in “scimmia”; la “ë” è muta o semimuta: nel leggere “Dafìnascìtës”, con l’accento shqip, si va di peso sulla seconda “ì” ma la si trascina su “tës”, quasi sulla “ë” con la sonorità semimuta che si ha nei dialetti calabresi jonici.


Aida Maria Zoppetti▐ Questa è una storia

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    Questa è una storia
    del tutto silenziosa
    C’è una siepe di senape
    che dondola, c’è il sonno
    di un’antilope, il volo di un’allodola

    Bzzzz…Un’ape
    Psss…. Una nuvola

da èricreazione  e da èblueblow

Pedro Salinas▐ Para vivir no quiero

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[XIV]   Para vivir no quiero
         islas, palacios, torres.
       ¡Qué alegría más alta:
vivir en los pronombres!

Quítate ya los trajes,
las señas, los retratos;
yo no te quiero así,
disfrazada de otra,
hija siempre de algo.
Te quiero pura, libre,
irreductible: tú.
Sé que cuando te llame
entre todas las gentes
del mundo,
sólo tú serás tú.
Y cuando me preguntes
quién es el que te llama,
el que te quiere suya,
enterraré los nombres,
los rótulos, la historia.
Iré rompiendo todo
lo que encima me echaron
desde antes de nacer.
Y vuelto ya al anónimo
eterno del desnudo,
de la piedra, del mundo,
te diré:
         «Yo te quiero, soy yo».

  [da: Pedro Salinas, La voz a ti debida, Signo, Madrid, dicembre 1933] 
marisa g.aino & poetry 
© blue amorosi

Per vivere non voglio
isole, palazzi, torri.
Che allegria altissima:
vivere nei pronomi!

Togliti subito i vestiti,
i connotati, i ritratti;
non ti voglio così,
mascherata da altra,
sempre figlia di qualcosa.
Ti voglio pura, libera,
irriducibile: tu.
So che quando ti chiamerò
fra tutte le genti
del mondo,
solo tu sarai tu.
E quando mi chiederai
chi è quello che ti chiama,
quello che ti vuole sua,
sotterrerò i nomi,
le pergamene, la storia.
Andrò rompendo tutto
quanto m’hanno gettato addosso
da prima ch’io nascessi.
E ritornato ormai all’anonimo
eterno del nudo,
della pietra, del mondo,
ti dirò:
 «Io ti voglio, sono io».
░ [trad. di v.s.gaudio]

La forma fluens di Edoardo Sanguineti ▌Gio Ferri

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Gio Ferri
Sanguineti confidenziale

La rivista TESTUALE critica della poesia contemporaneafu fondata a Milano nel 1983 da Giuliano Gramigna, Gilberto Finzi e dal sottoscritto. Nacque dall’idea di affrontare con analisi appunto testuali la poesia nuova, in fieri, come si era sempre fatto per l’antica o comunque per quella già ampiamente riconosciuta. La nuova per lo più, se non trascurata, veniva brevemente recensita sui quotidiani (meno sui periodici) con strumenti biografici, superficialmente psicologici o sociologici, al di fuori comunque di una linguistica e stilistica valutazione delle più strette forme e ragioni autonomamente poetiche. Ciò comunque senza trascurare i contesti politici, in senso lato, che caratterizzavano fortemente quegli anni.
Ovviamente ci sembrò indispensabile coinvolgere linguisti e critici, e poeti, tra i più prestigiosi italiani e stranieri, dell’Europa e degli USA, persino della Croazia. Nacque una “Consulenza critica redazionale” alla quale, fra i primi, aderì con sincero interesse Edoardo Sanguineti.
Per il n.4 del 1985 ci venne proposto di pubblicare un breve saggio della poetessa Alida Airaghi dal titolo Sanguineti: dall’opposizione al compromesso. Nacque subito qualche imbarazzo tenuto conto dell’entusiasmo con il quale il poeta ci aveva intellettualmente sostenuti, Tanto che Gramigna, con il suo signorile e sensibile rispetto verso chiunque, suggerì di non avviare così presto una, seppur velata, polemica con l’interessato pubblicando di sorpresal’intervento. Poteva essere corretto oltre che amichevole farglielo leggere preventivamente.
La cover di Testuale 4/85
che, oltre al testo di Airaghi, conteneva testi di
Sanesi, Ermini, Vaccaro, Guarracino, De Michelis
e Ferri
Alida Airaghi, infatti, come si suol dire, andava giù pesante, ovviamente con ragioni in parte comprovate, comunque nell’allora situazione sociale e letteraria sicuramente di qualche stimolo e interesse. Fra l’altro Alida Airaghi, che per praticità in parte qui tento di parafrasare (scusandomi con l’autrice), affermava, sovente citando lo stesso Sanguineti:
… Sanguineti, nel 77, a chiusura del suo Postkarten evidenziava… una aspirazione al silenzio… una necessità di fare il punto… Quel silenzio è rimasto un pio desiderio… già nell’’80 usciva Stracciafoglio, con ventennali testi d’occasione… di un sperimentalismo ormai di maniera… per  testimonianze civili elettorali anche  nel nome del PCI…
Dai primi testi poetici ad oggi, Sanguineti è venuto man mano delimitando e circoscrivendo il ruolo e la funzione della ricerca e della sperimentazione linguistica a strumento puramente letterario… Nell’impossibilità, ormai, della provocazione … il linguaggio veniva rivalutato come strumento di comunicazione, con inevitabili abusi interpretativi  e fraintendimenti più o meno consci… si perde di conseguenza  la connotazione ideologica del linguaggio, quale arma disgregatrice contro l’ordine borghese… in qualche modo si neutralizza… diventa coscientemente lingua letteraria che parte dai crepuscolari, attraversa gli ermetici per approdare a un discorsivismo di impianto realistico… Ma quale realismo?
… Sembra pretestuoso  (e presuntuoso) definire realista una poesia  in cui attori e ambienti non hanno altra funzione, altra connotazione (non parliamo di collocazione di classe!) se non quella di fare da scenario all’individuo-poeta…come esibizione di sé…
Alida Airaghi estrapolava e commentava per diverse poesie questa condizione rileggendo appunto Stracciafoglio.
… perché questo suo “far poesia”, lungi dal mettere e mettersi in crisi, appare ormai codificato, ritualizzato e prevedibile… (… la sua posizione coincide con quella del Partito Comunista) … bloccato in una impasse tanto politica che estetica.
… Se gli uomini sono uomini… e ad essi bisogna adattare teorie e idee,  le parole sono parole, e anche in omaggio ad esse Sanguineti ha accettato il compromesso.
Sanguineti non fece eccezioni di sorta, anzi ritenne utile che, possibilmente, si aprisse un dibattito. Così pubblicammo il testo critico.

Alla fine del 1986, con un amico artista di considerevole valore, il cuneese Basso Sciarretta, organizzammo una mostra a Chiavari: Sciarretta presentò dei modernissimi e originalissimi arazzi, io a mia volta una serie di lavori di scrittura visuale. Sanguineti, avvertito, intervenne amichevolmente presentando la mostra. Poi lesse, forse per la prima volta in pubblico, il suo recente poemetto Novissimum testamentum. Un testo poetico in cui il flusso di parola rivelava una, seppur temporanea, uscita dai precedenti stilemi che abitualmente erano stati sempre caratterizzati dall’ambiguità e dalla violenta frantumazione del senso e della struttura linguistico-sintattica. Un testo che rivelava, e il titolo ne era la prova, una soggettiva e intimistica (seppur politicamente pubblica) predisposizione all’esibizione di sé, forse proprio come aveva  profetizzato Alida Airaghi.
Per inciso dirò che allora, invece, come oggi rileggendolo, molto fui e sono coinvolto da quella forma fluens al limite di un originale flusso di coscienza (che per altro aveva sempre caratterizzato, seppur in modo diverso, la sua poesia).
A sera, dopo cena, ritornammo a Genova in macchina. Io non guidavo e stavo seduto dietro con Sanguineti. Posizione ideale per scambiare quattro chiacchiere in confidenza. Confidenza generosa da parte del noto letterato che vinse ogni mio timore reverenziale. Già quindi in breve ebbi modo di conoscere un Sanguineti diverso dal personaggio pubblico, scrittore a volte clamorosamente engagé.
Ma l’intimità contingente favorì, per iniziativa dello stesso Sanguineti, il ricordo di quel problematico e non certo acquiescente saggio di Alida Airaghi.
Alida Airaghi Sanguineti:dall'opposizione
al compromesso pagina 18 di Testuale 4/85

Sanguineti con semplicità e onestà confessò, fra l’altro: “Cosa mai avrei dovuto fare e dire durante gli anni in cui prese forma Stracciafoglio?”. Erano gli anni, infatti, non certo facili del discusso superamento del Gruppo ’63 e delle , talvolta ambigue, metamorfosi del Partito Comunista, se non di tutta la politica italiana. E internazionale. Forse, riconobbe, era venuto il momento di riformarsi, di prendere atto con umiltà e intima pazienza della realtà nuova che incombeva, in letteratura e nella vita civile. C’era stata anche la vicenda di Pasolini, con il quale, almeno sul piano della ricerca letteraria, e dell’impegno politico, Sanguineti non si era trovato sempre d’accordo. Non senza contare la conturbante tragedia del ’75.
Questa aperta e umile confessione, piena di interrogativi anche inespressi, di titubanze nei confronti della stessa storia personale futura, lo ricordo con sincerità, mi commosse. In sé, per me, questa fu una situazione assolutamente eccezionale, tenendo conto soprattutto dei pubblici riconoscimenti e delle importanti rotture che sempre avevano agitato le iniziative sanguinetiane, così da farne una sorta di mostro sacro. Perché, inoltre, non si poteva certo dimenticare la sapiente qualità della sua ricerca estetica, critica e storica, nei confronti della poesia italiana, a partire dall’Alighieri.
Fu un viaggio indimenticabile, nel tempo breve per arrivare insieme da Chiavari alla sua casa di Genova (assai fuori mano, costretti a un lungo e complicato tragitto), e nel tempo di una altrettanto labirintica dismisura umana e poetica.

P.S.: Questa nota fu pubblicata in parte (e qui riportata con alcune varianti), nel blog della rivista ANTEREM di Verona,

(Ottobre 2010)

♦ Il pappagallo ad incaglio

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Parrotë Gojàç. Il pappagallo balbuziente
bygaudio malaguzzi

Qualche anno fa, o se andiamo a vedere sono lustri ormai, è capitato che un pappagallo, no, non finì contro l’Intercity con cui dovevamo far ritorno, io, il poeta e una nostra amica a Firenze, e quindi non ci fu alcun pappagallo rimasto completamente sfracellato; è che questo pappagallo, che, in inglese, fa “Parrot” un po’ come il cannone “Parrott”, e che, ancor prima o in quello stesso periodo, il poeta rinvenne sulla copertina di un quaderno e riconoscendo la parola che è, fonologicamente, il soprannome che gli viene dal suo avo, ne comprò più copie, tanto che ebbe a dirsi: “Adesso in famiglia i veri “Parrotë”[i] sono una mezza dozzina”. E mentre in treno ammiravo la linea delle cosce possenti dell’amica che viaggiava con noi nella sua gonna grigia e il tacco a 2 pollici e mezzo[ii], che tanto feticizzano l’oggetto “a” del poeta, questi, guardando dal finestrino, avendo potuto vedere un uccello che volava verso una cascina immersa nel crepuscolo, ebbe a dire: “Avevamo un pappagallo una volta a casa, un Parrot che balbettava, e avevamo anche uno zio – questo disse – che balbettava, e quindi pensavamo un po’ tutti, noi piccoli, anche quella mia cugina che non era mia cugina e nemmeno forse era capace di pensare, che nel nostro stato di famiglia c’era un Parrot balbuziente, che si “incacagliava”[iii], e questo nostro pappagallo qua-qua-qua-quando s’inca-caca-caca-gliava era peggio del singhiozzo di zia Lucrezia, che, poi, voi dite che è per questa assonanza?, lo fece erede universale e lui, il pappagallo balbuziente, girò tutto a un tale che veniva da Tarsia per il suo nome e che, perciò, aveva nello stato di famiglia anch’esso un parente nascosto a Firenze, ma quel che  è evidente è che l’uso di questo girare l’eredità è un po’come la faccenda del formalizzare, sempre dal notaio, un credito per pagare un debito che non è esigibile, è un vero incaglio, insomma, uno schema, sempre coordinato dal dispositivo di alleanza, che afferisce allo schema verbale dello “Stammering Parrot”, il “Parrotë”che “s’incacaglia”, che, in verità, non era coloratissimo questo mio zio che, come mi venne a dire non so chi, usava dormire in una delle bare delle sue onoranze funebri ancorché avesse l’unghia del mignolo lunghissima a becco di Parrot”[iv].




[i]La sequenza onomastica del poeta è questa: dal pappagallo inglese, Parrot, passa al cannone americano, Parrott, e arriva al “senza ruota”shqip, Parrotë.
[ii]Questa misura del tacco, come gaudio del proprio oggetto a, è speculare, o raddoppia, quanto meno s’incaglia, al calibro più piccolo del cannone Parrott, quello di 2,9” e di 10 libbre: ci sarà questo peso atomico che fa da pondus all’oggetto adel poeta?
[iii]L’incacagliarsi  deriva dallo schema verbale “incagliarsi”, che  è “andare in secco”, “bloccare per ostacoli o difficoltà improvvise”; d’altronde “incagliare nel parlare” è “incepparsi”, “balbettare”. L’incaglio è l’ostacolo, l’intoppo. Il Parrot con l’incaglio, poi, venne da pensare al poeta una volta, era doppiamente “Parrotë”, cioè doppiamente “senza ruota” ? O questo incaglio era l’azione sintomatica di un incaglio nel nome, e nello stato di famiglia?
[iv]L’artiglio ci fa pensare al fatto che “balbuziente” in shqip sarebbe “gojàç”(leggi:”goiàc”, con la “c” palatale di “cibo” ) , che è una parola usata anche nell’accezione di “persona scurrile”. Parrotë scurrile o Parrot malizioso o, anche, il pappagallo che importuna per strada e verbalizza schemi verbali e azioni di natura sessuale e quindi il Parrot-Shnek?

Wordle: il pappagallo balbuzienteLa Wordle del Pappagallo Balbuziente

Original Text ♥ L'amore dialettale di V.S.Gaudio

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V.S.Gaudio ♥ Amore/Dialetto
[ tit. originale: L’amore ama il dialetto]: 
pagina del titolo e pagina successiva in: 
Fermenti”, anno XII, n.7-9 
Roma luglio-settembre 1982 


Altre due pagine del saggio di v.s.gaudio  
pubblicato da “fermenti” nel 1982 che, poi, 
costituirà la base per il 
Kamasutra della Mabrukka 
Elogio e pragmatica dell’amore dialettale 
 1998]

La cover del numero di fermenti
che contiene il saggio di v.s.gaudio:
è una tempera del 1978 di Giacomo Porzano:
"Il fiore in bocca"


Il sommario del numero 128-131 di "fermenti"

Nel capitolo 2.Alcune posizioni mabrucche  , di Il Kamasutra della Mabrukka [© 1998] , “L’Asino di tre anni”, che è una variante de “La Tigre Bianca che salta”, ha una resa dialettale molto semplice nel Kamasutra mabrukko partenopeo: “Ciuccia Fottuta”, oppure “’A Ciuccia ca chiava” o anche “ Che Chiaveca ‘e ciuccia”, oppure “’A Ciuccia s’è fatta Troia”.
L’Asino di Tre anni” così com’è rappresentato 
inanonimadel gaudon tumblr
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Ella Eyre ♫ La voce col cappello del poeta

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Il cappello del poeta e la voce di Ella Eyre
Non la conoscevo. Ella Eyre. E’ questo che intendo; l’autoscontro sì, come giostra la conoscevo, è che non mi è mai piaciuto, per via  del fatto che non ci arrivavo mai con un bel cappello; poi, quando, finalmente, ho avuto il cappello, sai quanto me ne poteva fregare dell’autoscontro e della giostra, lo usavo per scappellarmi per le bionde che mi venivano incontro, e una volta addirittura anche per Lady D, quando venne quella volta  in Italia e si fermò all’Hotel Baglioni di Bologna, e c’era una folla immensa a lato dell’ingresso e per via Indipendenza, e fu allora che uscì, per andare a Modena per il concerto degli amici di Pavarotti, e ci guardammo, lei dal finestrino dell’auto, e io sotto i portici, le piaceva il mio cappello bianco, che avevo preso da Barbetti, proprio lì a Bologna, tanto che come mi vide il mio amico il poeta Paolo Badini disse Cavolo, che cappello, Vuèsse! Non disse Sciorbole, disse proprio cavolo, o forse non disse nemmeno cavolo, che cosa esclamò allora quella sera di dicembre che mi venne incontro per via Montegrappa, c’era a Bologna il Motorshow e non ero riuscito a trovare che una camera in un albergo che andava a puttane? Che il portiere chiamava coperte, e, ricordo, che una di quelle notti era lì a darmi la chiave, e c’era accanto al banco un signore anziano che aveva la moglie ricoverata al Rizzoli, e questo, nel darmi la chiave, mi chiese se volevo anche una coperta, e io ma non mi sembra che stia facendo molto freddo, e poi ma lo sa lei che uno che è riuscito a superare la notte gelida davanti al distretto militare di Catanzaro per la visita di leva non avrà mai più freddo in vita sua?

Mi accorgo adesso che Lady D , quando ci guardammo quella sera, ma era prima del crepuscolo o dentro il crepuscolo, e c’era sotto i portici un odore intenso di tabacco, e fu come disse Jean Baudrillard, per via dell’attrattore strano o della patafisica, non ci crederà nessuno, questo è vero, ma intanto che ci guardammo in quell’attimo lei mi fece capire che sapeva che era nel mio oggetto “a” e che era cosciente del fatto che stava passando al meridiano del mio (-φ), come se sapesse che l’avevo messa tra i miei Oggetti d’amore, Lady Diana e il blasone del fallo[i], e questo era, in quel momento, mi prese tra bocca e sguardo e forse anche il naso, e mi intimò di non scappellarmi, tanto lo so, questo mi fece intendere, Dio, che bel cappello bianco ti sei messo, Vuèsse, cosa non dovrò farti ogni volta che sarai al mio meridiano, che viene prima del tuo, ed è per questo che adesso me ne vado perché sono già venuta prima. Ed io mi misi a ridere, dopo, in quella solitudine che c’è a Bologna quando ha il cielo pieno di elicotteri militari e le strade stracolme di gente e di forze dell’ordine, per via del fatto che non c’era verso di incantare una principessa, e allora a che cazzo mi servirà poi ‘sto cappello, e presto detto, me lo tolsi e lo lanciai verso il cielo di Bologna in una breve parabola, quasi da (-φ).
L’autoscontro, per via della Live Session di Ella Eyre, è così che adesso mi prende per la sua voce, che è un po’ come il mio cappello, servirebbe per scappellarsi ma poi la Principessa dice no, non lo fare, non scappellarti così davanti a tutti, e la sua voce, che era un incanto per come era dentro la mia testa nel mio oggetto “a” e quindi dentro il cappello, la voce della cantante non so che cappello sarebbe, forse un passamontagna, un berretto di lana, come quello che uso adesso che sono dentro il freddo della palude sibaritica, che in origine era sì per davvero un luogo per le grandi troie, e noi andavamo matti per la salsiccia calabrese, i poeti sono fatti così, la principessa propende per il salame di Felino e il Culatello, e loro per la salsiccia piccantissima calabrese…
Ma è questo che volevo scrivere, che Bologna è dentro l’autoscontro, dentro il luna park, tra il sistema di messaggio primario che Edward T. Hall chiama “ricreazione” e l’altro che chiama “territorialità”, dentro, nella città questo vive, una sorta di modulo lunare, stai sempre per fare un allunaggio, specie se fai il poeta e hai il cappello, sei sempre nell’emisfero visibile e quando vai che ti fotografano negli anni settanta  lo facevano sempre con la macchina fotografica senza rullino, e allora è questo, con quel cappello tutti a vederti, c’era, ve l’ho detto, quell’altra volta il Motorshow, e Bologna straripava di genti e il poeta venivano a rintracciarlo nelle vie più buie e più lontane dal centro ogni sorta di gente, per via di quel cappello bianco, che era la luna, allora, la luna piena sotto i portici di Bologna, e Lady D vide la luna[ii]sulla mia testa, che passava al suo meridiano, e così scosso il suo oggetto “a” come lo scuote la voce di Ella Eyre e come un colpo di un’auto all’autoscontro e ti sbatacchia la sensorialità, che è così che sulla luna a questo punto ci passa una nuvola. O forse era il mio cappello bianco sulla luna[iii]della principessa, perciò mi sorrise e perciò metto sempre quel cappello bianco ogni volta che passa sulla luna della principessa.
byv.s.gaudio



[i]V.S.Gaudio, Lady Diana e il blasone del fallo, in: Idem, Oggetti d’amore. Somatologia dell’immagine, della bellezza e del sex-appeal, Scipioni Bootleg, Viterbo 1998. Il testo è stato pubblicato per la prima volta nel n.180-182 di  “Fermenti”, rivista di critica del costume e della cultura, Roma ottobre-dicembre 1986. Si veda anche, dello stesso autore, Il fallo-peculio di Diana Spencer, in: V.S.Gaudio, Carolina di Monaco e  il destino fallico delle principesse, in “lunarionuovo”, rassegna di letteratura, anno XXVI, n.11, Catania ottobre 2005.
[ii]La Luna di Diana è a 25° dell’Acquario, quasi vicina alla Luna del poeta, nella sua orbita insomma, ma è la Luna dell’autoscontro per davvero, perché è in opposizione con Urano, che è l’autoscontro, sia come automobile che come luogo di ricreazione, che come fenomenologia stradale; e più in là c’è anche Marte, insomma il mezzopunto Luna/Chirone da un lato e di fronte il mezzopunto Urano/Marte.E la tragedia immane che sarebbe venuta.
[iii]La Luna Nera è sul Sole del poeta, e qui comincia il cappello bianco, per come Lilith e la parte araba dell’Animus sono esattamente il Sole e l’Ascendente del poeta e il cappello è così bianco che copre l’orizzonte fino all’altro mezzopunto Saturno/Giove della principessa; ma il cappello prende forma e consistenza come (-φ) con la parte araba del Mullar(Asc.+Lilith-Nettuno) che è esattamente in testa a Plutone, che, con Marte come mezzopunto, è il punctum fallico in aspetto con Mercurio, che è la testa e il poeta, nel punto in cui questi ha la Luna Nera. Insomma, il cappello bianco del poeta più che la luna, della principessa e del poeta, è anche la luna nera del poeta e della principessa. Mercurio, all’autoscontro, è la voce di Ella Eyre. Una voce col cappello del poeta.

Aida Maria Zoppetti & V.S.Gaudio ▌Una Stimmung e una rotella per Mimmo Rotella

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Aida Maria Zoppetti
 rotella per Rotella
ricreazione

▌In realtà la Stimmungcon Rotella era doppia ma , 
poi, mancò, come il pesce tipografico, l’altra dal catalogo 
Mimmo Rotella immagini e parole”[Rubbettino 2005], 
allestito per la mostra che divenne fatalmente postuma 
fatta a Catanzaro nel febbraio del 2006 
presso la Galleria Arte Spazio ▌
▌Il décollage di Rotella abbinato a 
La ragazza bruna che a Dubrovnik…
fu, naturalmente, visto il pesce di cui sopra, 
Lo sguardo di Nicole”(Kidman) 
cm 60x81 © 2005 ▌

Original Text ░ "Filo di ragno" di Marisa G. Aino

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Marisa G.Aino  Filo di ragno
 “fermenti” n.177-179
Roma , luglio settembre1986


Marisa G.Aino le poesie 6 e 7 di "Filo di ragno"

La cover del numero di "fermenti"
che contiene Filo di ragno di Marisa G.Aino:
è Antinoo, un disegno a matita di Bruno Caruso
Marisa G. Aino e la losanga di Lacan
in una photostimmung on flickr
by blue amorosi

♦ L'umidità e il pelo biondo della propria dinastia

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Il chiodo, l'umidità e la cugina del poeta
byGaudio Malaguzzi


Come Glenn Gould, anche il poeta aveva sempre temuto l’umidità delle osterie austriache, il musicista, e del suo distaccamento abitativo, il poeta, aveva paura di prendersi, Glenn, una malattia mortale in quelle osterie austriache che sono sempre così mal arieggiate o addirittura non lo sono affatto.
In realtà – nelle nostre osterie – ,questo scrive Thomas Bernhard,  molti avventori si prendono una malattia mortale, gli osti non aprono le finestre neppure d’estate, e così l’umidità può annidarsi nei muri per sempre[i]. Come in quella cosiddetta casa, dove è tenuto il poeta. Lì, la finestra che c’era dove c’è il camino, è stata chiusa perché i figli prediletti della suocera dovevano arieggiarsi sopra abusivamente e a danno eterno di chi andava tenuto sotto.
Questa storia dell’umidità e dell’abusivismo edilizio e delle appropriazioni indebite all’interno di una stessa famiglia, ammesso che quella formata sia un’effettiva e naturale famiglia,come d’altronde ben sapeva Wertheimer, è abbinata al cattivo gusto che si è ormai diffuso dappertutto, non certo la proletarizzazione delle nostre locande, fosse anche quella di “Sciankètt” o la mitica “Bufalara”, intendo l’appropriazione indebita di tutto ciò nel territorio del poeta, tra la strada statale 92 e l’ex strada statale 106.
Una sorta di infame comunismo di questi infami comunisti, i briganti delle tre bisacce, i quali, dovunque oggi ci guardiamo intorno, vediamo e sentiamo questo turpe e micidiale ombronismo, che ha permeato di sé ogni cosa.
Come le stanze che abita il poeta, i cui muri impregnati di umidità sia d’estate che d’inverno, non cambia mai niente, l’umidità estiva è più micidiale e mortale dell’ombronismo, come le stanze di quella locanda di cui parla Thomas Bernhard, queste stanze non hanno nei muri il chiodo della leggenda araba, quella in cui uno che vende i muri ma non il chiodo, cosicché possa entrare in casa quando cazzo vuole per appendere o togliere qualsiasi cosa o niente dal  suo chiodo.
Così il poeta mise un bel chiodo alla parete della finestra,  e vedeva sempre come questo suo chiodo fosse una sua cugina, per modo di dire, una con cui mai aveva detto “Ciao, come sta  il conno esemplare unico  della nostra dinastia? E’ davvero così pieno e sempre turgido come si dice in giro?”; né semplicemente “Sai cosa mi ha detto quella giovane zingara così gnocca patafisica l’altro giorno facendo finta di leggermi la mano?”, e lei: “Cosa?”, e lui: “Non te lo direi mai e poi mai, rovina del mio fallo!”
Questa sua cugina, forse fu per lei che un po’ si fece feticista delle scarpe, come Wertheimer, ma non come lui che pare ne avesse centinaia di paia nella casa di Kohlmarkt[ii], feticista come può esserlo chi a un certo punto fece di sua cugina, questa cugina che, in realtà, non era sua cugina, difatti lei non diceva che era cugina del poeta, di quel bel poeta per cui, che so?, gli volterei le pagine del libro quando legge oppure se sta scrivendo una poesia, e vorrei tanto che fosse sul pelo biondo delle mie cosce che scrivesse, gli farei un bel lavoretto sotto il tavolo, e lui neanche mai disse che quella zotica col culo grosso e le gambe storte fosse sua cugina, quantunque, a volte, pensava, o forse non è mai avvenuto, di eiaculare sulle sue cosce col pelo biondo, e mentre faceva questo e pensava a quello che la zingara gli aveva svelato del suo stato di famiglia, e in più gli si era offerta “vieni, andiamo più in là, laggiù c’è un binario morto e ti metterò in moto il tuo oggetto a, e lo farò fischiare, e sbufferà, io sono una zingara dei calderai e farò la tua ruota accoppiata, o quella motrice, quella portante, dai, mio bell’amore mio che scrivi poesie andiamo a fare un poema con l’asta dello stantuffo che ho la caldaia stracolma!”, questo ricordò in modo così preciso, e intanto vedeva la cugina con queste scarpe o quelle altre e il peso e la forma dei suoi garretti o dei polpacci, le caviglie, o forse le cosce di quelle gambe storte e il culo come, già da giovane, era ampiamente posto su quei pilastri ad arco, uno così facendone un chiodo per il proprio oggetto a stava sospeso tra il feticismo delle scarpe e il feticismo dei ponti, e mentre camminava a mezzogiorno o al crepuscolo serale, questo pensava spesso che l’umidità dei muri dove sta questo chiodo infisso prima lo ha fatto arrugginire e adesso, piano piano, lo sta corrodendo.




[i]Cfr. Thomas Bernhard, Il soccombente, © 1983; trad.it. sesta edizione gli Adelphi, Milano 2010: pag.51.
[ii]Ibidem: pag.53.
Questo racconto di Gaudio Malaguzzi 
è apparso online ne Gli Anelli di Saturno 33 
di Alessandro Gaudio col titolo 

♦ Parrottëvend 2

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La macellaia non è del paese dell’orrore
by Gaudio Malaguzzi
Non c’è dubbio che ci sia un mondo invisibile, come ebbe a scrivere Woody Allen. E non c’è dubbio che ci sia un paese dell’orrore, e questo sia quello in cui è stato formalizzato l’atto di nascita del poeta.
Di avvenimenti inspiegabili e raccapriccianti ne succedono di continuo, altrimenti Freud dove l’avrebbe preso l’Unheimliche? Un uomo fa una carneficina e dice che è stata una voce a insufflargli l’atto di esecuzione; un altro se ne va in Irlanda e per non aver fatto scacco matto trucida l’avversario e afferma che gli ha mangiato il cuore, invece, grazie a Dio, era solo il polmone, e pensare che era andato lì per imparare la lingua, e che cazzo se ne fa un siculo cannibale della lingua irlandese? E allora, ci si chiede, perché non gli ha mangiato la lingua al suo avversario? Un terzo si sveglia  e si ritrova in mutande in Vaticano, e lui pensava che era in metropolitana per il giorno delle mutande, ma il perturbante sta nel fatto che, a guardare le foto di quel giorno in metrò, ne avessimo visto una di fighe in mutande come Dio comanda, ma quale La Perla e L’Agent provocateur, tutte mutande, manco Sloggi, in cotone allentato dal viola pallido al rosa bibita al verde indefinito della palude nel pantano di Villapiana!

Quanti di noi, la mattina dopo, hanno provato un senso di vergogna? Cosa c’è dietro questa esperienza dell’andare in mutande in metropolitana,  come mai non è ancora uscito un libro che , riferendosi a ricerche in merito fatte come minimo dai reparti sociologici delle Università che, per fare un corso di italiano, a sette studenti di lingua madre inglese, indicono un corcorso internazionale e lo fanno vincere a un italiano a cui gli fanno fare il corso per un solo anno accademico, mentre gli altri sette del dipartimento fanno la battaglia dei Gesuiti via e-mail e la banca di stato di quell’isola che gli deve accreditare lo stipendio chiede, tramite lo Ior, delucidazioni sul precedente conto che il soggetto aveva con Bancoposta? E, appunto, dopo aver rovinato la vita familiare, e tenuto prigioniero nell’isola quell’italiano, lontano dal suolo patrio, cosicché la compagna potesse provvedere a posizionare meglio il cavallo di Troia, ci danno questi risultati scientifici sulle mutande mostrate quel giorno in metropolitana? Per fortuna, quel paese dell’orrore, in cui c’è l’atto di nascita del poeta, esiste ancora, ed è quello il paese in cui, è questo che divulgarono nelle cronache, avvenne che un giorno una donna,avendo rinvenuto il padre in due pezzi davanti casa decise che era meglio inscatolarlo e quindi, comprato un ceppo presso il locale rivenditore di legnami, con un’accetta ottenne tanti pezzi quanti potevano essere stipati in sette, otto scatole, che, naturalmente, aveva preso dalle scatole svuotate di un locale supermercato, vai a vedere magari erano scatole che all’origine contenevano insaccati, ma l’orrore è che questa attività di macellaia, nonostante ci siano italiani che vadano in Irlanda che per imparare la lingua mangiano il polmone del locatore e che, a conferma che la lingua non l’avevano ancora imparata bene, sono convinti di avergli mangiato il cuore, la macellaia non era andata in Irlanda, né aveva vinto quel concorso internazionale, con 120 partecipanti, all’University of Malta, né si era ritrovata una mattina in Vaticano in mutande a fare un prelievo al Bancomat e quella mattina era la mattina della Befana e come abbiamo saputo la Banca d’Italia aveva bloccato tutti i bancomat del Vaticano e allora, adesso, come faccio? Dove lo compro un coprimutande, una tonaca, se qui parlano solo in latino?

Il paese dell’orrore, d’accordo. Ma la macellaia, il macellato, forse anche l’accetta e il ceppo, e anche le scatole, chi lo sa?, non sono del paese del poeta, sono di un paese italo-albanese, e il paese dell’orrore è ormai totalmente occupato da tutti gli italo-albanesi che,venuti a vari strati generazionali, dai loro paesini interni d’origine, si son costruiti, lira su lira, sudore su sudore, sangue su sangue, la loro ennesima abitazione nel luogo che oltre ad aver dato origine all’atto di nascita del poeta si origina dal nonno del poeta, a cui, per orrore o errore?, gli tolsero prima il cognome e poi lo tennero segregato fino alla morte in una casupola di fronte a quelli, della sua famiglia di origine, che il cognome gliel'avevano tolto. Insomma, anche questo è un fatto di sangue e di macelleria.
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